mercoledì 10 settembre 2014

SERGIO MARINOTTI: L'ACQUISIZIONE DEL FEUDO DI GORLA MAGGIORE


Gorla Maggiore in una foto degli anni Sessanta


L’acquisizione del feudo di Gorla Maggiore da parte di Mons. Carlo Giovanni Giacomo Terzaghi
 
                                      di Sergio Marinotti

Con il dominio spagnolo lo Stato di Milano conservava ancora molti tratti dello stato cittadino, in cui le città e le relative oligarchie detenevano ampi poteri e privilegi dai quali erano esclusi i rurali: le autorità del capoluogo avevano infatti giurisdizione (sulla città e sull’intera provincia) in fatto di viabilità, commercio di generi alimentari, calmiere dei prezzi, ubicazione delle attività produttive; i cittadini godevano inoltre del privilegio di essere tali, in forza al quale ovunque si trovassero, essi non erano soggetti ai giudici locali, restando giudicabili solo da quelli cittadini.

Cittadini e rurali erano inoltre soggetti a due diversi regimi fiscali (prevalentemente indiretta per i primi e diretta per i secondi).

Ad accentuare la natura disorganica della struttura politica amministrativa contribuiva la presenza di numerose comunità rurali che, in un modo o nell’altro, riuscivano a sottrarsi del tutto o in parte al controllo degli organi di governo; oltre ai borghi e ai villaggi che difendevano ad ogni costo privilegi ed immunità ottenute in passato (come per esempio Abbiategrasso, la quale poteva eleggere il proprio Podestà in piena autonomia), tra le giurisdizioni speciali si possono segnalare le cosiddette “terre separate”, le quali godevano di un’ampissima autonomia amministrativa rispetto al capoluogo di provincia ed erano soggette in minima parte alla fiscalità del governo centrale. I feudi imperiali erano poi terre soggette al controllo imperiale; esse sfuggivano al controllo delle autorità locali, ponendosi come vere e proprie enclave: non a caso tali terre divennero spesso rifugio di briganti, disertori e contrabbandieri, alimentando all’interno degli stessi (ma anche all’esterno) numerosi disordini: è altresì evidente come l’autorità del feudatario, forte di una totale immunità, poteva talora assumere i toni dell’arbitrio e della sopraffazione dei sudditi.

Ai feudi Imperiali si accostarono i feudi camerali, terre che erano cioè legate da un diretto rapporto di vassallaggio ai duchi di Milano; nelle infeudazioni i duchi trovarono un modo sia per ricompensare i loro uomini più fedeli, sia per affidare a gente fidata il controllo delle terre rurali, dove più difficilmente si poteva far sentire il diretto controllo dell’autorità ducale.

I sovrani spagnoli apportarono tre importanti modifiche al sistema preesistente, dando maggiore stabilità al sistema: in primo luogo imposero il principio dell’ereditarietà del feudo nella linea maschile, in modo da ridurre il numero di devoluzioni alla Corona; secondariamente, si valsero dell’infeudazione di terre libere e delle reinfeudalizzazioni, non tanto per premiare i sudditi più fedeli, quanto per reperire denaro; infine, legarono la vendita dei titoli nobiliari a quella dei feudi, stabilendo che nessuno poteva chiedere di fregiarsi del titolo di nobile se non appoggiava tale titolo ad un feudo.     

L’investitura feudale non comportava il possesso di un territorio o di beni immobili, ma la concessione di vari diritti sulla popolazione domiciliata in quelle terre; il feudatario, oltre ad ottenere l’ossequio della popolazione, poteva eleggere a sua scelta il giudice locale (giudice feudale) da una rosa proposta dal Senato, il quale comunque valutava l’operato del giudice che a sua volta doveva essere confermato dalla popolazione due anni dopo la sua elezione: s’impediva così il totale arbitrio del feudatario nelle terre da lui controllate garantendo la popolazione stessa. Per lo stesso motivo al giudice feudale erano sottratte le cause sui reati più gravi e tutte le cause che vedevano coinvolto personalmente il feudatario, mentre le sentenza che prevedevano la pena capitale, la mutilazione o la confisca dei beni dovevano essere confermate dal Supremo Magistrato.

Al feudatario restava il diritto di lucrare tutte le multe e le confische decise dal giudice feudale e la riscossione delle regalie ordinarie, quali i dazi su vino, sale, imbottato, carne, pane, ecc…, e di esigere un’imposta per l’esercizio di alcuni servizi pubblici, quali il mulino, il forno per cuocere il pane o la taverna del villaggio, fermo restando che “non può il feudatario astringere ai sudditi cosa alcuna di più di quello solevano pagare alla Regia Camera, sotto pena della perdita del feudo.”[1]

E' inoltre da sottolineare che il possesso di un feudo, prima di essere un vantaggio economico, è un vantaggio di immagine: i diritti su queste terre sono estremamente ridotti rispetto al passato.

L'ingresso di molti appartenenti alle famiglie feudatarie nel mondo ecclesiastico, se da una parte risponde al bisogno di conservare intatto il patrimonio,[2]dall'altro trova ragione nella grande influenza che esercita la chiesa sul potere secolare.

La Diocesi di Milano, che copriva la metà della superficie dello stato, nutriva un vivo sentimento di singolarità nell’ambito della chiesa universale, alimentato dalle peculiarità del rito ambrosiano. La popolazione si manteneva attaccata alla religione dei padri nonostante il decadimento - diffuso in un po’ tutto il mondo cattolico – dei costumi dei chierici e religiosi.

E’ inoltre da notare che secondo Luigi Faccini

 

mai durante l’età moderna gli enti ecclesiastici si erano trovati in una situazione economica e sociale tanto fortunata e privilegiata quanto nei decenni più bui della crisi seicentesca: ricchi ordini monastici, mense vescovili e persino misere parrocchie seppero accortamente trarre profitto dalle nuove opportunità speculative che si presentavano. Guerre ed epidemie, rendendo più breve ed incerta la vita, non potevano che giovare ai mediatori della sopravvivenza ultraterrena, ad un clero che aveva ritrovato unità e prestigio sotto le insegne della riforma tridentina. A ciò si deve soprattutto quel moltiplicarsi di legati, di lasciti e pie donazioni che avrebbero concorso ad ampliare, fin dai primi anni di crisi, il patrimonio degli enti religiosi.”[3]

 

A questo proposito occorre ricordare che ogni comunità del regio demanio poteva essere concessa in feudo da parte della corona: in una simile circostanza la comunità poteva valersi della facoltà di richiedere che l’atto d’investitura fosse revocato, a patto di sborsare una somma pari ai due terzi del prezzo pagato dal nuovo Signore. Quando un villaggio riusciva a liberarsi dall’infeudazione, non poteva più essere concesso in feudo ad altri richiedenti, a meno che non rinunciasse esplicitamente a questo diritto. Una tale opzione poteva essere esercitata dalla comunità ogni volta che il loro Signore moriva senza lasciare eredi nella linea maschile diretta, nel qual caso la terra era nuovamente incamerata dalla corona.

Erano quindi tre i casi in cui ad un villaggio si presentava l’opportunità di scegliere tra la libertà e l’infeudazione:

1) quando la corona decideva di vendere in feudo una comunità sino allora libera;

2) quando un feudo si trovava sul punto di essere venduto dopo l’incameramento del demanio;

3) quando la comunità, che in passato aveva acquistato il diritto di non essere   più infeudata rinunciava a tale diritto.

Il prezzo dell’infeudamento era fissato sulla base di due cifre ben distinte: una era proporzionale al numero dei fuochi (che normalmente era valutata in 40 lire l’uno) senza tener conto della ricchezza o povertà, o delle capacità di produrre reddito; l’altra cifra rappresentava il valore dell’eventuale reddito che si stimava potesse essere ricavato annualmente dal nuovo signore. Se la prima cifra era considerata come il pagamento di un’imposta che si riscuoteva dai ricchi in cambio del privilegio che si offriva loro di acquistare un titolo nobiliare; la seconda cifra riguardava il valore economico delle terre, e poteva considerarsi un anticipo che l’acquirente faceva all’erario sulle future entrate che sarebbero toccate all’erario stesso.

Pochi però risultano i casi in cui era previsto il pagamento della seconda cifra, in quanto spesso le regalie, all’atto dell’infeudazione del villaggio, erano già state alienate dallo stato.  

 

Come sappiamo, il governo spagnolo era all’incessante ricerca di denari per sostenere le numerose e lunghe guerre seicentesche che videro coinvolta la Lombardia e la Spagna, tanto che una principale fonte di reddito del periodo fu proprio la vendita di numerosi feudi e di cariche nobiliari: durante la dominazione iberica il numero di villaggi infeudati superò abbondantemente il migliaio; è un errore però desumere da ciò che l’età spagnola significò un brusco ritorno del feudalesimo, in quanto lo Stato di Milano pullulava già di feudi quando Carlo V ne assunse la guida. Molte delle infeudazioni comandate dalla Corona di Spagna non erano altro che concessioni di terre che già precedentemente erano state vendute ad appartenenti di famiglie ormai estinte, tanto che sono poche le terre di nuova infeudazione. La creazione di nuovi feudi non fece quindi che seguire una direzione già nettamente tracciata nel secolo precedente: l’unica vera differenza fu che gli Asburgo considerarono il regime feudale non tanto come uno strumento per assicurarsi la fedeltà dell’aristocrazia, quanto piuttosto come un comodo mezzo per ricavare delle entrate; di qui la consuetudine di concedere un feudo dietro il pagamento in contanti di una somma proporzionale all’estensione delle terre infeudate, di subordinare la concessione di un nuovo titolo nobiliare all’acquisizione di un feudo, e di massimizzare l’eventualità che un feudo si devolvesse alla Corona per interruzione della linea di successione insistendo sul principio di primogenitura.[4]

Nello Stato di Milano la Spagna si trovò ad affrontare anche un imponente organismo ecclesiastico che attingeva forza da antiche consuetudini, dalla vasta rete d’interessi anche materiali intrecciati nel corso dei secoli con i ceti dirigenti, dagli stretti legami che lo univano con l’apparato statale e con l’attaccamento del popolo alla religione. In particolare, il sentimento vivo della chiesa milanese come singolarità all’interno della Chiesa cattolica esaltava lo spirito religioso.

Sul finire del 1649 Mons. Carlo Giovanni Giacomo Terzaghi chiese che gli fossero pagati i crediti che egli vantava verso il governo per gli stipendi arretrati dovutigli per le mansioni svolte come amministratore degli ospedali dell’esercito di Sua Maestà. La richiesta, prontamente girata dal magistrato ordinario al tesoriere Sig. Arese, non trovò soddisfazione:   

 

“Mons. Carlo Giò Giacomo Terzaghi, in stato dell’Ospedale Reale d’Alessandria, di farli prender denari per la cura dei malati, ed avendo fatto istanza a Sua Eccellenza di renderli all’Ospedale, ordinò al Sig. presidente Arese che li si assegnasse denari. Avendo riportato che non ve ne erano, di non far pagare i poveri e di esser pagato del suo soldo offresi comperare dei feudi.”[5]

 

Il Terzaghi chiese infatti di infeudare le terre di Gorla Maggiore, Gorla Minore, Solbiate Olona e Prospiano, poste nella pieve di Olgiate Olona, offrendosi di pagare una parte del prezzo dovuto scalando dai crediti suddetti.

Normalmente, il pagamento del prezzo del feudo era evaso all’atto della vendita con la consegna del denaro contante; essendo il tipo di pagamento proposto da Terzaghi inusuale, alla richiesta dovette far seguito un decreto ducale che in data 20 Gennaio 1650 confermava la possibilità di pagare una parte del prezzo scalando dai crediti dovuti al monsignore così come da lui richiesto:

 

 Mons. Carlo Giovanneo Giacomo Terzaghi offrise infeudarsi delle terre di Gorla Maggiore, Gorla Minore, Solbiate Olona e Prospiano tutte quante nella pieve di Olgiate Olona Ducato di Milano, con che dopo la morte d’esso Mons. Terzago di detti feudi, cioè di Gorla Minore e Solbiate passino nel Sig. Francesco Maria Terzaghi suo fratello e suoi figli e discendenti fino in infinito, maschi però legittimi e naturali, nati e procreati da legittimo matrimonio con ordine di primogenitura, e quelli di Gorla Maggiore e Prospiano passino nella Signora Donna Beatrice Suarez D’Ovalle moglie che fu del q. Sig. Sergente Maggiore Uberto Terzaghi altro suo fratello, e nelli suoi figli maschi legittimi e naturali avuti da detto Sig. Uberto Terzaghi e nelli discendenti d’essi figli maschi legittimi come sopra fino ad infinito con ordine di primogenitura et per il prezzo di detto feudo offrise detto Mons. Terzaghi di pagare 40 lire per ciascun fuoco, due delle tre parti del qual prezzo pagherà alla Regia Camera nell’atto che si farà istrumento di vendita, e l’altra terza parte se li dovrà nell’istesso atto compensare sopra quello che come Amministratore Generale degli Ospedali dell’Esercito deve avere dalla Regia Camera per il suo soldo conforme all’ordinato da S. Ecc. con un decreto fatto il 20/1/1650 che qui annesso si esibisce.

Detta vendita si dovrà fare con quei modi che in altre simili vendite si sono osservate e con le medesime condizioni e principalmente con un patto che senza pregiudizio della ratificazione qualsidice fatta (…) nel termine di un anno dopo essa vendita s’habbia a riportare da parte della Regia Camera a spese della stessa Regia Camera le ratificazioni della stesse, e in caso che in quella non si riporti, sia lecito al Mons. se cosi a lui parerà, di recedere dal contratto, e in tal caso sarà la Regia Camera obbligata nella restituzione del prezzo tanto che si pagherà quanto che si compenserà insieme con l’interesse d’esso detto prezzo dal giorno del pagamento a ragione del 5% l’anno.

Inoltre si dichiara che esso Mons. non intende di acquistare dette terre se non tutte insieme (…) s’intende di accettare nel termine di otto giorni prossimi altrimenti si lascia per non fatta. Data in Milano il 27/1/1650.”[6]

 

E’ da sottolineare il fatto che la scelta di infeudare proprio queste comunità non fu affatto casuale; il Terzaghi e la sua famiglia, come abbiamo visto,  avevano già notevoli interessi in queste terre, tanto da risultare proprietari di numerosi appezzamenti e di alcune case: gli acquisti compiuti da Francesco Bernardino e dal fratello arciprete Giovanni Giacomo ne sono una chiara prova, e la richiesta  poi di voler acquistare le terre unitamente non fa che confermare la volontà dello stesso di assumere il controllo di una porzione di territorio delimitata e omogenea.

Trovandosi ostacolato dalla sua posizione di ecclesiastico, la richiesta di infeudazione prevedeva il passaggio del feudo ai fratelli del richiedente e ai successori degli stessi, e

 

“(…) finita una di dette linee succeda nei feudi l’altra, cioè il maschio legittimo più prossimo di detta linea non già primogenito. Qualora non vi fosse più prossimo altro che il primogenito, dovrà succedere il fratello del defunto e suoi figli con ordine di primogenitura, cosicché il feudo resti diviso e continui in due rami…”[7]

 

Per questo tipo di successione Mons. Terzaghi offrì alla Regia Camera un’aggiunta di 10 lire a focolare alle 40 già proposte:

 

“(…) Intendo accontentarmi che finendo una linea dei due fratelli, l’altra linea possa succedere con ordine di primogenitura stante che dette terre sono unite assieme di pagare 10 lire di più per ogni fuoco. 12/2/1650”[8]

 

La richiesta fu accolta con l’aggiunta di ulteriori 5 lire all’offerta del Monsignore:

 

“(…) Offrendosi inoltre detto Monsignore di pagare altre £. 10 per ciascun focolare se gli concedesse che finita una linea di detti due fratelli potesse prender l’altra con ordine di primogenitura e con li patti e condizioni convenute nella suddetta oblazione quale lettasi nel nostro tribunale, sentito prima il parere del fiscale Riva, fu da noi accettata (…) acconcesse altre £. 5. (…)”[9]

 

La concessione del feudo venne inoltre accordata dalla Regia Camera sulla base di una precedente infeudazione concessa ad un ecclesiastico:

 

“Alchè si sottoscrisse con Mons. Terzago con condizione che nella stipulazione del contratto se ne (adottassero) le medesime condizioni e se ne osservasse il modo tenuto con Mons. Giovanni della Porta per il feudo di Fornello e si gli concedesse otto mesi per pagare le £. 15 di più delle lire 40 per ciascun focolare (…)”[10]

 

Svolte le opportune conoscenze sulle comunità, esse risultavano così formate:

 

In Gorla Maggiore               Focolari 86

In Prospiano                        Focolari 21

In Gorla Minore                            Focolari 65

In Solbiate Olona                          Focolari 45

 

La consistenza dei feudi denota un miglioramento delle condizioni economiche e sociali della valle: durante la peste del 1630-31 i focolari che formavano le comunità si erano notevolmente ridotti di numero così come ricordato dai contemporanei:

 

“…In Pieve di Busto nel biennio 1630-31 più di un paese perse il parroco: Olgiate Olona, di 600 anime, ebbe a registrare almeno 157 decessi “di pesta” dal settembre 1630 al novembre del 1631; in Valle Olona – si legge negli atti di infeudazione del 1650 – il contagio fece a Gorla Maggiore “mortalità grande riducendo li focolari che erano circa 100 al numero di 30 o 40”, investì Gorla Minore e Prospiano, estinse nel 1631 a Solbiate 80 dei 200 abitanti.”[11]

 

In valle Olona la peste aveva già colpito la popolazione nel 1348, nel 1440 e nel 1576.

La peste è una funesta conoscenza di tutto il mondo antico, tanto che in ogni secolo sono segnalate annate particolarmente dannose in ogni angolo d’Europa, in quanto il male , per il corso epidemico causato dal contagio, si diffondeva rapidamente senza trovare ostacoli.

Gli studiosi ritengono che tifo e peste possono facilmente diffondersi soltanto in un contesto di depressione economica e di condizioni igienico sanitarie pessime. Se queste ultime furono regolarmente allucinanti nelle società preindustriali,  i più erano denutriti anche quando il pane si acquistava a prezzi accettabili, la guerra dei Trent’anni, dove giunse, alterò le condizioni socio-economiche, moltiplicando i poveri e i diseredati, i quali cercarono scampo nelle città, sapendole più ricche di scorte alimentari rispetto alle campagne.

In questo contesto precario, dove la sottoalimentazione e la fame determinarono indubbiamente minori difese fisiologiche, comparve e si diffuse la peste, la quale, già presente in Francia, Germania e Svizzera, fu portata in Lombardia, come è noto, dai soldati imperiali mandati all’assedio di Mantova. L’istinto al saccheggio li spinse, mentre passavano per Grigioni e Valtellina, a sfondare case serrate perché contagiate o sospette, diventando essi stessi portatori del morbo e vittime dello stesso.

Le cronaca bustese che accenna  a quei tempi riferisce che “non vi era figura di Santo né sottana di prete o di monaca che potesse tenere a bada quelle bestie scatenate”.[12] La gravità della situazione è segnalata anche dalla situazione di siccità che si ripeteva da parecchi ani, aggravata dalla mancata lavorazione delle terre a causa dei continui balzelli di imposte e tasse che il governo ducale imponeva: il contadino, oltre a dover far fronte alle imposizioni, veniva defraudato del raccolto.

Secondo le stesse cronache “La carestia arrivò a tal colmo che non si trovava di vivere né ancor con dinari, perché un moggio di formento si vendeva lire settantadue, la segale sessanta, il miglio cinquanta, il vino lire ventiquattro la brenta, et con difficoltà si trovava la vettovaglia con denari contanti.”[13]

 

Il nostro anonimo cronista continua poi con un fatto che merita di essere riferito:

 

“cosa di grande meraviglia et di non poco stupore seguì l’anno 1630, quasi incredibile per chi non ha veduto coi suoi occhi, che in quell’anno regnasse una gran quantità di ratti, dai quali le persone ben difficilmente potevano difendersi, né di giorno né di notte, dalla gran molestia ed importuna rabbia di questi animali, che non si poteva salvare cosa alcuna per il gran numero di quelli mussi, né vi era casa che non vivessero a centenare et facevano danno dappertutto”, insomma mangiavano ogni cosa “tanto che rosignavano anche gli usci come se fossero tanti cani.”[14]

 

Non vi è da stupirsi se il morbo attecchì facilmente in una realtà come quella della valle Olona.

 

 Se gli abitanti di Solbiate Olona, Prospiano e Gorla Maggiore non cercarono di liberarsi dal tentativo d’infeudazione, non cosi accadde con la comunità di Gorla Minore. Esposte le carte d’infeudazione nelle comunità interessate, il 16 Marzo un agente della Comunità di Gorla Minore, tal Francesco Vimercati, presentò a nome della comunità una procura, chiedendo la liberazione della comunità stessa dall’infeudazione:

 

“Hanno presentato li agenti della comunità di Gorla Minore pieve Olgiate Olona si come d’ordine della S.V.I. sono state esposte cedole per infeudare e vendere detta terra e perché per molti rispetti non deve permettere la comunità supplicante che questa sia infeudata. (…)

Volendosi la comunità supplicante redimersi da tale infeudazione, si accetti la sua oblazione che li agenti di quella intendono fare e sempre si supplica sospendere tale vendita ed infeudazione.”[15]

 

Il fatto che molte comunità rurali decisero di affrontare il grave sacrificio economico del riscatto, è stato interpretato come la prova della gravezza del regime feudatario.

Quando una comunità rurale era scelta per essere infeudata, s’incaricava un funzionario di recarsi al villaggio per interrogare i residenti, al fine di determinare l’importanza del villaggio, il genere di coltivazioni ivi praticate, le fonti di reddito tassabile, ecc…, non ultimo il parere dei locali riguardo ad una possibile infeudazione.

Alla chiara contrarietà poteva anche accostarsi l’indifferenza o addirittura la soddisfazione dell’arrivo di un nuovo signore, visto come salvaguardia contro il peggior flagello cui erano esposti i contadini in quel periodo di guerre, vale a dire l’alloggiamento delle truppe. Essenziale per il passaggio delle truppe dalla penisola iberica alle Fiandre, al centro delle “rivendicazioni francesi e delle “aspirazioni” piemontesi, necessario per ogni politica di controllo dei principati italiani, lo Stato di Milano fu caratterizzato dalla presenza permanente di consistenti contingenti di truppe, stanziali o in transito, nelle quali, per di più, la componente lombarda fu sempre minoritaria rispetto a quella di altri luoghi (spagnoli, napoletani, svizzeri, tedeschi, ecc.)

Questa presenza ebbe non soltanto risvolti politici, economici e finanziari, ma anche non trascurabili effetti sulla vita quotidiana delle popolazioni lombarde che per centocinquant’anni furono costrette a vivere accanto a soldati di diversa provenienza, sopportarne i costi di mantenimento e subirne le angherie.

La soldatesca era alloggiata nelle terre, città e province dello Stato (con la sola eccezione di Milano). Una parte di essa era alloggiata nei presidi e la parte restante in alcuni luoghi di qua e di là del Po (Domodossola, Bobbio, ecc.) e in località confinanti con il tortonese (Castelnuovo Scrivia e Cassano) e con l’alessandrino (Rocca Grimalda, Tagliuolo e Montale).

Il numero dei soldati presenti in Lombardia non fu mai fisso, ma variò in relazione ai rumori e tumulti di guerra. Con esclusione delle case ubicate a Milano, chiunque avesse compiuto diciotto anni era tenuto ad alloggiare i soldati, a meno che non ne fosse esonerato a titolo di privilegio antico o dal fatto di avere dodici figli. In mancanza di “case herme” (caserme), vale a dire edifici civili isolati, la soldatesca che non avesse trovato ospitalità nei castelli o nelle piazzeforti poteva essere acquartierata nelle stesse case abitate dai civili, i quali, pertanto, si vedevano costretti a vivere quotidianamente gomito a gomito con persone che avevano abitudini e tradizioni diverse e che spesso non parlavano neppure la loro lingua.

Conflitti, di conseguenza, sorgevano ad ogni piè sospinto, e non servivano ad eliminarli i bandi emanati dalle più alte autorità dello stato per regolare minuziosamente la materia.[16]

L’apparente contraddizione tra chi, pur di evitare l’infeudazione, è disposto a gravi sacrifici economici, e chi sembra essere indifferente o addirittura contento della venuta di un signore feudale si risolve nella considerazione che le resistenze all’infeudamento vengono spesso non dai contadini (che per lo più sono indifferenti o favorevoli), quanto dai padroni terrieri e dalle autorità locali, che vedevano il nuovo padrone capace di intaccare i loro interessi personali o di casta. L’infeudamento significava per loro la presenza di un magistrato (il giudice feudale) che poteva intromettersi nelle vertenze con i conduttori dei propri fondi o con i lavoranti di giornata, anche quando gli stessi proprietari avrebbero preferito risolvere quelle vertenze con metodi più sbrigativi e meno ortodossi; se una vertenza doveva essere proprio portata in tribunale, probabilmente tornava a vantaggio del ricco che fosse dibattuta lontano dal villaggio, in una città dove egli poteva contare su amicizie che il povero non poteva vantare.

L’infeudamento era inoltre per i possidenti un grave smacco dal punto di vista dell’immagine, in quanto, da padroni indiscussi, si vedevano costretti a riconoscere un superiore al quale avrebbero dovuto poi tributare onori ed ossequi.

Al contrario i villici vedevano la redenzione del loro villaggio negativamente, sia perché questo comportava il pagamento di un oneroso riscatto, sia perché la presenza del giudice feudale avrebbe permesso loro di sbrigare più agevolmente le loro pratiche senza doversi recare ogni volta in città; a questo si aggiungeva la speranza che la venuta di un nuovo signore potesse migliorare le condizioni di vita e la certezza del mancato alloggiamento delle truppe di passaggio, capaci di mettere puntualmente a soqquadro un’intera comunità. Non a caso uno dei luoghi comuni più diffusi del tempo era quello secondo cui i civili avevano più da temere dalle truppe chiamate a difendere lo stato del quale erano cittadini che da quelle nemiche.[17]

In conclusione, possiamo dire che l’infeudazione, oltre a non provocare particolari cambiamenti nella vita quotidiana della comunità, comportava a volte qualche vantaggio, al contrario della redenzione che obbligava la comunità all’aggravamento degli obblighi finanziari: inevitabile che sul problema le comunità tendevano a dividersi al proprio interno tra chi auspicava l’arrivo di un nuovo padrone o quantomeno non aveva motivo per contrastare tale venuta (i contadini) e chi invece era avverso a tale ipotesi (i proprietari terrieri).

La situazione generale qui descritta, rispecchia perfettamente il caso gorlese: il giorno seguente (il 17 Marzo) Mons. Terzaghi, saputo del tentativo di liberazione, senza troppo curarsi di chi fossero i richiedenti, presentò a sua volta una carta di procura ricordando alla Regia Camera di aver già versato parte del denaro necessario all’infeudazione e che la stessa doveva comprendere, cosi come stipulato, unitamente tutte le quattro comunità; allo stesso modo Mons. Terzaghi chiedeva che il termine di otto giorni normalmente concesso alle comunità per versare la cifra necessaria alla liberazione fosse rispettato.[18]

Nella carta di procura presentata dal Vimercati compare, tra i 36 richiedenti, anche un parente del nostro monsignore, tal Antonio Terzaghi di Bernardo o Bernardino che, sorretto da vari massari e dal Consorzio della Misericordia di Milano in Gorla Minore (istituzione che aveva notevoli interessi economici nella comunità) tentò di opporsi alla vendita della comunità.

Il consorzio della Misericordia compare nella vita cittadina milanese nel 1368 per iniziativa di venticinque ricchi mercanti. In breve tempo attirò la maggior parte della beneficenza cittadina e in particolare quella dei ceti elevati. Il consorzio entra nel vivo della comunità di Gorla Minore per effetto della disposizione testamentaria di Giovanni Pietro Terzaghi fu Berto: contestualmente fu istituita la cappellania di S. Giovanni Battista.

Per avere un’idea delle sostanze confluite dal Terzaghi al consorzio basterà tener presente che la parte del terreno arativo di proprietà del consorzio era pari al 12% di tutto il territorio similare di Gorla Minore.[19]

Da una carta dell’ingegner Pietro Antonio Barca del 1608[20] sappiamo con certezza che il consorzio era proprietario anche di un mulino di quattro rodigini  (presumibilmente ruote o macine) lungo il fiume Olona. 

Il 26 dello stesso mese Mons. Terzaghi, meglio informatosi della situazione, presentò una nuova carta alla Regia Camera in cui chiedeva che la richiesta di liberazione fosse annullata:

 

“Mons. Terzago, al quale è stato deliberato il feudo di Gorla Maggiore, Gorla Minore, Solbiate e Prospiano con la condizione che la comunità di Gorla Minore in termine di otto giorni si possa redimere, (dice che) è stata prodotta una cedola di procura a nome della comunità, non è fatta dalla comunità, ma da privati.

Supplica la S.V.I. che se nel termine di otto giorni si portasse il denaro non si permetta la redenzione a nome della comunità (…) la procura non è giustificata, ma fatta da un complesso di padroni..”[21]

 

Come già precedentemente detto, risultano qui le difficoltà da parte del Terzaghi di acquisire il feudo anche a causa del contrasto di alcuni appartenenti alla sua stessa casata, preoccupati di perdere potere ed influenza nelle loro terre.

Nello stesso giorno Stefano Vimercati, come Procuratore della Comunità di Gorla Minore pieve Olgiate Olona, facendo riferimento agli otto giorni concessi per il pagamento della somma necessaria alla liberazione

 

 “ supplica che detto termine resti prorogato almeno per altri quindici giorni nei quali il supplicante può far fare incombenze.”[22]

 

Non sappiamo se il Terzaghi esercitò delle pressioni sui richiedenti o se mosse qualche autorevole conoscenza, ma quel che è certo è che due giorni dopo il Sig. Giacomo D’Adda, con altri rappresentanti del Consorzio della Misericordia ritirarono in tutta fretta la domanda di liberazione:

 

“Memoriale di Giacomo D’Adda e altri fittavoli, massari e pigionanti del Consorzio della Misericordia di Milano in Gorla Minore pieve Olgiate Olona Ducato di Milano.

Il Sig. Giacomo D’Adda e altri fittavoli e pigionanti del Consorzio della Misericordia di Milano avevano fatto procura di Stefano Vimercati per redimere la comunità di Gorla Minore pieve Olgiate Olona dall’infeudazione (…) si sono pentiti della procura…”[23]

 

Inoltre, in un documento del 30 Aprile, leggiamo che

 

Ecco che comparvero li fittabili e Massari del Venerando Consorzio della Misericordia della detta terra di Gorla Minore e ci presentarono un instrumento col quale revocarono la procura fatta da detto Vimercati, con il che decidessimo di riportare l’instrumento negli atti e che se ne desse notizia allo stesso Vimercati.”[24]

 

Una situazione del tutto simile si era sviluppata poco tempo prima per il feudo di Parabiago, quando , nel 1648, un Conte Arese si offrì come acquirente: la sua offerta si scontrò dapprima con l’opposizione apparentemente unanime della comunità. Tale opposizione venne più tardi denunciata dai contadini come una manovra fraudolenta, perpetrata a loro insaputa dai proprietari terrieri del posto, tanto che un’inchiesta confermò che la decisione di chiedere la redenzione e di raccogliere la somma necessaria a pagare il riscatto era stata “fatta per forza ad istanza da pochi particolari” che avevano montato “servi armati nelle campagne per far conoscere ai paesani la volontà dei signori”. Alla luce di questi risultati la richiesta di redenzione fu respinta e la terra fu infeudata dal Conte Arese, con piena soddisfazione dei contadini che avevano minacciato di “fuggire ed absentarsi totalmente”, qualora i proprietari l’avessero spuntata.[25]

Superate quindi le riserve dei ricorrenti, la Regia Camera decise in data 31 Marzo che si procedesse alla deliberazione dello strumento di vendita del feudo a favore di Mons. Carlo Giovanni Giacomo Terzaghi, il quale versò 11217,5 lire per i 217 fuochi che formavano le quattro comunità.

Le altre comunità non posero alcun veto all’infeudazione; in particolare, Gorla Maggiore probabilmente si trovò, al di là della volontà o meno di opporsi al nuovo padrone, impossibilitata ad ogni reazione, in quanto sfiancata economicamente. Precedentemente infatti questa terra era stata feudo dei Visconti; il 17 Agosto 1536, con atto rogato da Galeazzo Visconti, il Conte Vitaliano si accordò con alcuni rappresentanti della comunità gorlese assicurandosi il censo annuo di 80 lire da parte della comunità, la quale avrebbe versato tale cifra il giorno di S. Martino.

Dal 1536 successero così al Conte Vitaliano (figlio di Lodovico) il conte Annibale, ed a questi un altro Lodovico il quale, morto senza eredi maschi, lasciò le sue sostanze a sua figlia, donna Laoisia (1599). La comunità di Gorla Maggiore, vedendo finire la legittima successione nella linea mascolina decise di non versare più il censo ai Visconti, considerando il feudo devoluto alla Regia Camera: ne nacque così una lunga vertenza che coinvolse la comunità per oltre un cinquantennio, con risvolti gravissimi, specie in quegli anni noti per guerre e pestilenze.

In date diverse gli eredi di Laoisia, Pietro Francesco e poi Lodovico, intentarono varie cause contro la comunità gorlese; il 15 Gennaio 1602, con atto rogato dal notaio Cesare Pusterla, la comunità gorlese cedette alle pretese dei Visconti,impegnandosi a versare 780 lire imperiali. L’anno seguente i popolani, stanchi delle arroganze degli ex feudatari, diedero mandato al console Giò Batta Fontana, tramite il cancelliere notaio Ottaviano Pusterla, e presentarono ricorso alla Regia Camera; nonostante la sentenza desse ragione ai richiedenti (19 Luglio 1606), le richieste degli eredi continuarono imperterrite fino al 1654, quando cioè la comunità era già stata riinfeudata da quattro anni al Terzaghi.[26]

A seguito dell’infeudamento, rogato in data 23 Giugno 1650 dal notaio Camerale Mercantolo, furono raccolte le informazioni sulle singole località. Il questore console di Vimercate ricevette le informazioni redatte dai consoli locali e siglate dal console Giò Batta Cartabia in data 8 novembre 1650[27].

Rispetto a Gorla Maggiore i fuochi contati dal cancelliere Dott. Giacomo Filippo Moneta erano 80, compresi il curato e il cappellano di San Carlo, cui si dovevano aggiungere alcuni elementi che, essendo proprietari di fondi, non abitavano nella comunità. Riguardo ai dazi, quelli del pane e del vino erano di competenza dei Conti Giovanni e Lodovico Visconti di Fagnano Olona, mentre per il dazio della carne vi erano fondati dubbi sui diritti di questi, in quanto da tempo non risultava aperta in città una beccheria, e al presente la gente si riforniva in una bottega di Fagnano. La terra di Gorla Maggiore non era soggetta ad imposte feudali, eccetto il censo ordinario del sale che pesava sulla comunità per 27 lire. Secondo il Dottor Giacomo Filippo la comunità di Gorla era precedentemente formata da oltre 100 fuochi, ma che la peste del 1630 l’aveva ridotta a circa 40 e che solo grazie all’immigrazione poteva contare oggi sugli 80 calcolati.

Gorla Minore era formata da 63 focolari anche se la lista presentata ne dimostrava 64: una persona era infatti morta. Nella lista presentata dal console di Gorla Minore Antonio Ferioli del fu Ilario sono compresi anche quelli del curato, degli Oblati e delle vedove.

Tra le attività presenti sul territorio sappiamo dell’esistenza di un mulino doppio di proprietà del fratello di Carlo Giovanni Giacomo,  Francesco Maria Terzaghi, che era condotto da Francesco Musaggio e Gerolamo Baio in qualità di pigionanti, abitanti in una casa vicino al mulino. Riguardo la peste, Antonio Ferioli dice che “ho inteso che ultimamente vi fu un contagio e che morirono in molti, ma non so se i fuochi siano distrutti. E’ probabile che molti fuochi andarono a finire.”

A Prospiano i fuochi elencati dal console Gaudenzio Paolano di Paolo erano in tutto 17. Non vi erano entrate feudali all’infuori del censo del sale che pesava per circa 70 lire l’anno. Sul posto vi era un’osteria che lavora poco, anche perché “chiunque può fare l’oste, basta che paghi il bollino a Don Francesco Maria Terzaghi”. Non esisteva il prestino, ed il pane si comperava a Castellanza. Riguardo alla peste, il console si limita a dire che anche a Prospiano vi era stato il contagio e che per questo il numero dei fuochi era diminuito.

Solbiate Olona era formata da 40 fuochi compreso quello del parroco; il paese non aveva entrate feudali eccetto il censo del sale che, con altre imposte gravavano sulla comunità per circa 2000 lire l’anno versate ad un imprecisato Marchese Fiorenzo e, in parte uguale, a tale Angela di Gallarate che fu moglie di Carlo Finoni ed era ora moglie di un soldato chiamato Gian Maria Pinorchino.  Circa 48 pertiche di terra erano di proprietà del Marchese Giovanni Visconti, il quale chiedeva un affitto per esse.

Vi era poi un’osteria diretta da Carlo Bignazio il quale, “pur non conoscendo  padrone, versava il bollino e ammazzava alcune bestie per conto dell’impresario.” Non vi era alcun prestino, ma l’oste precedente andava a prendere il pane a Legnano.

In seguito all’ispezione camerale si scoprì che le comunità si erano ridotte a 200 focolari, e pertanto la Regia Camera dovette restituire al Terzaghi la somma di 217,5 lire versata precedentemente in eccesso (vedi appendice 3).

L’elenco dei fuochi mostra, per Gorla Maggiore, una importante presenza della famiglia Moneta (tra essi vi è anche Ser Andrea, persona al servizio di Sua Maestà il Re), mentre nessun Terzaghi sembra risiedere in questa comunità.  L’unica presenza dei Terzaghi è attestata a Gorla Minore, dove risiedono il Sig. Giovanni Battista del fu Francesco e il Sig. Carlo Terzaghi del fu Carlo: di questi personaggi non abbiamo nessuna notizia, ma possiamo ritenere che fossero elementi di rilievo della comunità (erano infatti detti Signori) anche se non di primissima importanza.

Le comunità infeudate risultano essere quindi solo il centro delle attività economiche della famiglia, che continua a risiedere stabilmente a Milano.

 

 




[1] A.S.MI. Fondo Feudi Camerali p.a., cart. 16 fasc. 1, “Avvenimenti circa l’autorità dei feudatari dello Stato di Milano” (a stampa), in D. SELLA: Lo Stato di Milano in età spagnola, UTET Torino 1987, p. 34.
[2]Per una completa disamina del problema si rimanda a M. BARBAGLI: “Sotto lo stesso tetto” op. cit.
[3] L. FACCINI: La Lombardia tra ‘600 e ‘700, Milano, Franco Angeli Editore 1988 p. 144.
[4] Per un approfondimento della questione si rimanda al testo di  D. SELLA: Lo Stato di Milano in Età Spagnola,  op. cit.
[5] A.S.MI. Fondo Feudi Camerali p.a., cart. 271 fasc. B “Feudo di Gorla Maggiore 1650, 13 Giugno”, doc. 12/2/1650.
[6] A.S.MI. Fondo Feudi Camerali p.a., cart. 271 fasc. B già cit., doc. del 27/1/1650.
[7] A.S.MI. Fondo Feudi Camerali p.a., cart. 271 fasc. B già cit., riassunto.
[8]A.S.MI. Fondo Feudi camerali p.a. Cart. 271, fasc. B già cit. doc 28/1/1650
[9] A.S.MI. Fondo Feudi Camerali p.a., cart. 271 fasc. B già cit., doc. del 30/4/1650.
[10] A.S.MI. Fondo Feudi camerali p.a. Cart. 271, fasc. B Feudo di Gorla Maggiore 1650\13\6 doc.30/4/1650
[11] Le cronache di cui parliamo sono quelle riportate in Storia della peste avvenuta nel borgo di Busto Arsizio, 1630 riportata integralmente  in F. BERTOLLO – U. COLOMBO: La peste del 1630 a Busto Arsizio,  Bramante Editrice, Busto Arsizio 1990, p. 59.
[12] Ibidem.
[13] Ivi p. 103.
[14] Ivi p. 149.
[15] A.S.MI. Fondo Feudi Camerali p.a., cart. 271 fasc. B già cit., doc. del 16/3/1650.
[16] Gli eserciti del tempo non erano sicuramente composti da gentiluomini, ed assai frequente era in essi la presenza di avventurieri, sbandati e delinquenti. Ma l’isolamento dei soldati a volte era aggravato anche da divieti che rendevano assai difficili i contatti con le popolazioni civili. Ad esempio, il 15 Gennaio 1691, il Cardinale Visconti, arcivescovo di Milano pubblicò un editto nel quale, per evitare il diffondersi dell’eresia, impartiva disposizioni severe a tutti i parroci (Acta Ecclesiae Mediolanensis, a cura di A. Ratti, Milano 1890-97, vol. IV, col. 1355 e sgg.).
[17] R. CANOSA: La vita quotidiana a Milano in età spagnola, Ed. Longaresi, Milano 1966, p. 133.
[18] A.S.MI. Fondo Feudi Camerali p.a., cart. 271 fasc. B già cit., doc. del 16/3/1650.
[19] AA.VV.: La nostra chiesa parrocchiale di S. Lorenzo – Gorla Minore , Tip. A. Prina, Gorla Minore 1933, p. 44.
[20] Una copia del documento è riportata in L. CARNELLI: La valle Olona vista dalla dei Santi Vitale e Valeria in Gorla Maggiore, op. cit., p. 101.
[21] A.S.MI. Fondo Feudi Camerali p.a., cart. 271 fasc. B già cit., doc. 26/3/1650.
[22] A.S.MI. Fondo Feudi Camerali p.a., cart. 271 fasc. B già cit., doc. 26/3/1650.
[23] A.S.MI. Fondo Feudi Camerali p.a., cart. 271 fasc. B già cit., doc. 28/3/1650.
[24] A.S.MI. Fondo Feudi Camerali p.a., cart. 271 fasc. B già cit., doc. 30/4/1650.
[25] A. GIULINI: Vicende feudali nel borgo di Parabiago, Giornale Araldico, Bari 1902, pp. 3-7.
[26] L. CARNELLI, G. CISOTTO, A. DEIANA: Gorla Maggiore… op. cit., pp. 128-132.
[27] A.S.MI. Fondo Feudi Camerali p.a. cart. 271 fascicolo C “feudo di Gorla Maggiore”. L’elenco dei fuochi è riportato integralmente in appendice.

Ringraziamo il dott. Sergio Marinotti per l’autorizzazione alla pubblicazione del presente saggio tratto dal suo lavoro di tesi dal titolo “Tra fede ed affari: Mons. Carlo Terzaghi e l’acquisizione del feudo di Gorla Maggiore alla metà del XVII secolo”.

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