Gorla Maggiore in una foto degli anni Sessanta |
L’acquisizione del feudo di Gorla Maggiore da parte di Mons. Carlo Giovanni Giacomo Terzaghi
di Sergio Marinotti
Con il dominio spagnolo lo Stato
di Milano conservava ancora molti tratti dello stato cittadino, in cui le città
e le relative oligarchie detenevano ampi poteri e privilegi dai quali erano
esclusi i rurali: le autorità del capoluogo avevano infatti giurisdizione
(sulla città e sull’intera provincia) in fatto di viabilità, commercio di
generi alimentari, calmiere dei prezzi, ubicazione delle attività produttive; i
cittadini godevano inoltre del privilegio di essere tali, in forza al quale
ovunque si trovassero, essi non erano soggetti ai giudici locali, restando
giudicabili solo da quelli cittadini.
Cittadini e rurali erano inoltre
soggetti a due diversi regimi fiscali (prevalentemente indiretta per i primi e
diretta per i secondi).
Ad accentuare la natura
disorganica della struttura politica amministrativa contribuiva la presenza di
numerose comunità rurali che, in un modo o nell’altro, riuscivano a sottrarsi
del tutto o in parte al controllo degli organi di governo; oltre ai borghi e ai
villaggi che difendevano ad ogni costo privilegi ed immunità ottenute in
passato (come per esempio Abbiategrasso, la quale poteva eleggere il proprio
Podestà in piena autonomia), tra le giurisdizioni speciali si possono segnalare
le cosiddette “terre separate”, le quali godevano di un’ampissima autonomia
amministrativa rispetto al capoluogo di provincia ed erano soggette in minima
parte alla fiscalità del governo centrale. I feudi imperiali erano poi terre
soggette al controllo imperiale; esse sfuggivano al controllo delle autorità
locali, ponendosi come vere e proprie enclave: non a caso tali terre divennero
spesso rifugio di briganti, disertori e contrabbandieri, alimentando
all’interno degli stessi (ma anche all’esterno) numerosi disordini: è altresì
evidente come l’autorità del feudatario, forte di una totale immunità, poteva
talora assumere i toni dell’arbitrio e della sopraffazione dei sudditi.
Ai feudi Imperiali si accostarono
i feudi camerali, terre che erano cioè legate da un diretto rapporto di
vassallaggio ai duchi di Milano; nelle infeudazioni i duchi trovarono un modo
sia per ricompensare i loro uomini più fedeli, sia per affidare a gente fidata
il controllo delle terre rurali, dove più difficilmente si poteva far sentire
il diretto controllo dell’autorità ducale.
I sovrani spagnoli apportarono tre
importanti modifiche al sistema preesistente, dando maggiore stabilità al
sistema: in primo luogo imposero il principio dell’ereditarietà del feudo nella
linea maschile, in modo da ridurre il numero di devoluzioni alla Corona;
secondariamente, si valsero dell’infeudazione di terre libere e delle reinfeudalizzazioni,
non tanto per premiare i sudditi più fedeli, quanto per reperire denaro;
infine, legarono la vendita dei titoli nobiliari a quella dei feudi, stabilendo
che nessuno poteva chiedere di fregiarsi del titolo di nobile se non appoggiava
tale titolo ad un feudo.
L’investitura feudale non
comportava il possesso di un territorio o di beni immobili, ma la concessione
di vari diritti sulla popolazione domiciliata in quelle terre; il feudatario,
oltre ad ottenere l’ossequio della popolazione, poteva eleggere a sua scelta il
giudice locale (giudice feudale) da una rosa proposta dal Senato, il quale
comunque valutava l’operato del giudice che a sua volta doveva essere
confermato dalla popolazione due anni dopo la sua elezione: s’impediva così il totale
arbitrio del feudatario nelle terre da lui controllate garantendo la
popolazione stessa. Per lo stesso motivo al giudice feudale erano sottratte le
cause sui reati più gravi e tutte le cause che vedevano coinvolto personalmente
il feudatario, mentre le sentenza che prevedevano la pena capitale, la
mutilazione o la confisca dei beni dovevano essere confermate dal Supremo
Magistrato.
Al feudatario restava il diritto
di lucrare tutte le multe e le confische decise dal giudice feudale e la
riscossione delle regalie ordinarie, quali i dazi su vino, sale, imbottato,
carne, pane, ecc…, e di esigere un’imposta per l’esercizio di alcuni servizi
pubblici, quali il mulino, il forno per cuocere il pane o la taverna del
villaggio, fermo restando che “non può il feudatario astringere ai sudditi
cosa alcuna di più di quello solevano pagare alla Regia Camera, sotto pena
della perdita del feudo.”[1]
E' inoltre da sottolineare che il
possesso di un feudo, prima di essere un vantaggio economico, è un vantaggio di
immagine: i diritti su queste terre sono estremamente ridotti rispetto al
passato.
L'ingresso di molti appartenenti
alle famiglie feudatarie nel mondo ecclesiastico, se da una parte risponde al
bisogno di conservare intatto il patrimonio,[2]dall'altro trova ragione nella
grande influenza che esercita la chiesa sul potere secolare.
La Diocesi di Milano, che copriva
la metà della superficie dello stato, nutriva un vivo sentimento di singolarità
nell’ambito della chiesa universale, alimentato dalle peculiarità del rito ambrosiano.
La popolazione si manteneva attaccata alla religione dei padri nonostante il
decadimento - diffuso in un po’ tutto il mondo cattolico – dei costumi dei
chierici e religiosi.
E’ inoltre da notare che secondo
Luigi Faccini
“mai
durante l’età moderna gli enti ecclesiastici si erano trovati in una situazione
economica e sociale tanto fortunata e privilegiata quanto nei decenni più bui
della crisi seicentesca: ricchi ordini monastici, mense vescovili e persino
misere parrocchie seppero accortamente trarre profitto dalle nuove opportunità
speculative che si presentavano. Guerre ed
epidemie, rendendo più breve ed incerta la vita, non potevano che giovare ai
mediatori della sopravvivenza ultraterrena, ad un clero che aveva ritrovato
unità e prestigio sotto le insegne della riforma tridentina. A ciò si deve
soprattutto quel moltiplicarsi di legati, di lasciti e pie donazioni che
avrebbero concorso ad ampliare, fin dai primi anni di crisi, il patrimonio
degli enti religiosi.”[3]
A questo proposito occorre ricordare
che ogni comunità del regio demanio poteva essere concessa in feudo da parte
della corona: in una simile circostanza la comunità poteva valersi della
facoltà di richiedere che l’atto d’investitura fosse revocato, a patto di
sborsare una somma pari ai due terzi del prezzo pagato dal nuovo Signore.
Quando un villaggio riusciva a liberarsi dall’infeudazione, non poteva più
essere concesso in feudo ad altri richiedenti, a meno che non rinunciasse
esplicitamente a questo diritto. Una tale opzione poteva essere esercitata
dalla comunità ogni volta che il loro Signore moriva senza lasciare eredi nella
linea maschile diretta, nel qual caso la terra era nuovamente incamerata dalla
corona.
Erano quindi tre i casi in cui ad
un villaggio si presentava l’opportunità di scegliere tra la libertà e
l’infeudazione:
1) quando la corona decideva di
vendere in feudo una comunità sino allora libera;
2) quando un feudo si trovava sul
punto di essere venduto dopo l’incameramento del demanio;
3) quando la comunità, che in
passato aveva acquistato il diritto di non essere più infeudata rinunciava a tale diritto.
Il prezzo dell’infeudamento era
fissato sulla base di due cifre ben distinte: una era proporzionale al numero
dei fuochi (che normalmente era valutata in 40 lire l’uno) senza tener conto
della ricchezza o povertà, o delle capacità di produrre reddito; l’altra cifra
rappresentava il valore dell’eventuale reddito che si stimava potesse essere
ricavato annualmente dal nuovo signore. Se la prima cifra era considerata come
il pagamento di un’imposta che si riscuoteva dai ricchi in cambio del
privilegio che si offriva loro di acquistare un titolo nobiliare; la seconda
cifra riguardava il valore economico delle terre, e poteva considerarsi un
anticipo che l’acquirente faceva all’erario sulle future entrate che sarebbero
toccate all’erario stesso.
Pochi però risultano i casi in cui
era previsto il pagamento della seconda cifra, in quanto spesso le regalie,
all’atto dell’infeudazione del villaggio, erano già state alienate dallo
stato.
Come sappiamo, il governo spagnolo
era all’incessante ricerca di denari per sostenere le numerose e lunghe guerre
seicentesche che videro coinvolta la Lombardia e la Spagna, tanto che una
principale fonte di reddito del periodo fu proprio la vendita di numerosi feudi
e di cariche nobiliari: durante la dominazione iberica il numero di villaggi
infeudati superò abbondantemente il migliaio; è un errore però desumere da ciò
che l’età spagnola significò un brusco ritorno del feudalesimo, in quanto lo
Stato di Milano pullulava già di feudi quando Carlo V ne assunse la guida.
Molte delle infeudazioni comandate dalla Corona di Spagna non erano altro che
concessioni di terre che già precedentemente erano state vendute ad
appartenenti di famiglie ormai estinte, tanto che sono poche le terre di nuova
infeudazione. La creazione di nuovi feudi non fece quindi che seguire una
direzione già nettamente tracciata nel secolo precedente: l’unica vera
differenza fu che gli Asburgo considerarono il regime feudale non tanto come
uno strumento per assicurarsi la fedeltà dell’aristocrazia, quanto piuttosto
come un comodo mezzo per ricavare delle entrate; di qui la consuetudine di
concedere un feudo dietro il pagamento in contanti di una somma proporzionale
all’estensione delle terre infeudate, di subordinare la concessione di un nuovo
titolo nobiliare all’acquisizione di un feudo, e di massimizzare l’eventualità
che un feudo si devolvesse alla Corona per interruzione della linea di
successione insistendo sul principio di primogenitura.[4]
Nello Stato di Milano la Spagna si
trovò ad affrontare anche un imponente organismo ecclesiastico che attingeva
forza da antiche consuetudini, dalla vasta rete d’interessi anche materiali
intrecciati nel corso dei secoli con i ceti dirigenti, dagli stretti legami che
lo univano con l’apparato statale e con l’attaccamento del popolo alla
religione. In particolare, il sentimento vivo della chiesa milanese come
singolarità all’interno della Chiesa cattolica esaltava lo spirito religioso.
Sul finire del 1649 Mons. Carlo
Giovanni Giacomo Terzaghi chiese che gli fossero pagati i crediti che egli
vantava verso il governo per gli stipendi arretrati dovutigli per le mansioni
svolte come amministratore degli ospedali dell’esercito di Sua Maestà. La
richiesta, prontamente girata dal magistrato ordinario al tesoriere Sig. Arese,
non trovò soddisfazione:
“Mons.
Carlo Giò Giacomo Terzaghi, in stato dell’Ospedale Reale d’Alessandria, di
farli prender denari per la cura dei malati, ed avendo fatto istanza a Sua
Eccellenza di renderli all’Ospedale, ordinò al Sig. presidente Arese che li si
assegnasse denari. Avendo riportato che non ve ne erano, di
non far pagare i poveri e di esser pagato del suo soldo offresi comperare
dei feudi.”[5]
Il Terzaghi chiese infatti di
infeudare le terre di Gorla Maggiore, Gorla Minore, Solbiate Olona e Prospiano,
poste nella pieve di Olgiate Olona, offrendosi di pagare una parte del prezzo
dovuto scalando dai crediti suddetti.
Normalmente, il pagamento del
prezzo del feudo era evaso all’atto della vendita con la consegna del denaro
contante; essendo il tipo di pagamento proposto da Terzaghi inusuale, alla
richiesta dovette far seguito un decreto ducale che in data 20 Gennaio 1650
confermava la possibilità di pagare una parte del prezzo scalando dai crediti
dovuti al monsignore così come da lui richiesto:
“Mons. Carlo
Giovanneo Giacomo Terzaghi offrise infeudarsi delle terre di Gorla Maggiore,
Gorla Minore, Solbiate Olona e Prospiano tutte quante nella pieve di Olgiate
Olona Ducato di Milano, con che dopo la morte d’esso Mons. Terzago di detti
feudi, cioè di Gorla Minore e Solbiate passino nel Sig. Francesco Maria
Terzaghi suo fratello e suoi figli e discendenti fino in infinito, maschi però
legittimi e naturali, nati e procreati da legittimo matrimonio con ordine di
primogenitura, e quelli di Gorla Maggiore e Prospiano passino nella Signora
Donna Beatrice Suarez D’Ovalle moglie che fu del q. Sig. Sergente Maggiore
Uberto Terzaghi altro suo fratello, e nelli suoi figli maschi legittimi e
naturali avuti da detto Sig. Uberto Terzaghi e nelli discendenti d’essi figli
maschi legittimi come sopra fino ad infinito con ordine di
primogenitura et per il prezzo di detto feudo offrise detto Mons.
Terzaghi di pagare 40 lire per ciascun fuoco, due delle tre parti del qual
prezzo pagherà alla Regia Camera nell’atto che si farà istrumento di vendita, e
l’altra terza parte se li dovrà nell’istesso atto compensare sopra quello che
come Amministratore Generale degli Ospedali dell’Esercito deve avere dalla
Regia Camera per il suo soldo conforme all’ordinato da S. Ecc. con un decreto
fatto il 20/1/1650 che qui annesso si esibisce.
Detta
vendita si dovrà fare con quei modi che in altre simili vendite si sono
osservate e con le medesime condizioni e principalmente con un patto che senza
pregiudizio della ratificazione qualsidice fatta (…) nel termine di un anno
dopo essa vendita s’habbia a riportare da parte della Regia Camera a spese
della stessa Regia Camera le ratificazioni della stesse, e in caso che in
quella non si riporti, sia lecito al Mons. se cosi a lui parerà, di recedere
dal contratto, e in tal caso sarà la Regia Camera obbligata nella restituzione
del prezzo tanto che si pagherà quanto che
si compenserà insieme con l’interesse d’esso detto prezzo dal giorno del
pagamento a ragione del 5% l’anno.
Inoltre
si dichiara che esso Mons. non intende di acquistare dette terre se non tutte
insieme (…) s’intende di accettare nel termine di otto giorni prossimi
altrimenti si lascia per non fatta. Data in Milano il 27/1/1650.”[6]
E’ da sottolineare il fatto che la
scelta di infeudare proprio queste comunità non fu affatto casuale; il Terzaghi
e la sua famiglia, come abbiamo visto,
avevano già notevoli interessi in queste terre, tanto da risultare
proprietari di numerosi appezzamenti e di alcune case: gli acquisti compiuti da
Francesco Bernardino e dal fratello arciprete Giovanni Giacomo ne sono una
chiara prova, e la richiesta poi di
voler acquistare le terre unitamente non fa che confermare la volontà dello
stesso di assumere il controllo di una porzione di territorio delimitata e
omogenea.
Trovandosi ostacolato dalla sua
posizione di ecclesiastico, la richiesta di infeudazione prevedeva il passaggio
del feudo ai fratelli del richiedente e ai successori degli stessi, e
“(…) finita
una di dette linee succeda nei feudi l’altra, cioè il maschio legittimo più
prossimo di detta linea non già primogenito. Qualora non vi fosse più prossimo
altro che il primogenito, dovrà succedere il fratello del defunto e suoi figli
con ordine di primogenitura, cosicché il feudo resti diviso e continui in due
rami…”[7]
Per questo tipo di successione
Mons. Terzaghi offrì alla Regia Camera un’aggiunta di 10 lire a focolare alle
40 già proposte:
“(…)
Intendo accontentarmi che finendo una linea dei due fratelli, l’altra linea
possa succedere con ordine di primogenitura stante che dette terre sono unite
assieme di pagare 10 lire di più per ogni fuoco. 12/2/1650”[8]
La richiesta fu accolta con
l’aggiunta di ulteriori 5 lire all’offerta del Monsignore:
“(…)
Offrendosi inoltre detto Monsignore di pagare altre £. 10 per ciascun focolare
se gli concedesse che finita una linea di detti due fratelli potesse prender
l’altra con ordine di primogenitura e con li patti e condizioni convenute nella
suddetta oblazione quale lettasi nel nostro tribunale,
sentito prima il parere del fiscale Riva, fu da noi accettata (…) acconcesse
altre £. 5. (…)”[9]
La concessione del feudo venne
inoltre accordata dalla Regia Camera sulla base di una precedente infeudazione
concessa ad un ecclesiastico:
“Alchè
si sottoscrisse con Mons. Terzago con condizione che nella stipulazione del
contratto se ne (adottassero) le medesime condizioni e se ne osservasse il modo
tenuto con Mons. Giovanni della Porta per il feudo di Fornello e si gli
concedesse otto mesi per pagare le £. 15 di più delle lire 40 per ciascun
focolare (…)”[10]
Svolte le opportune conoscenze
sulle comunità, esse risultavano così formate:
In Gorla Maggiore Focolari 86
In Prospiano Focolari 21
In Gorla Minore Focolari 65
In Solbiate Olona Focolari 45
La consistenza dei feudi denota un
miglioramento delle condizioni economiche e sociali della valle: durante la
peste del 1630-31 i focolari che formavano le comunità si erano notevolmente
ridotti di numero così come ricordato dai contemporanei:
“…In Pieve di Busto nel biennio
1630-31 più di un paese perse il parroco: Olgiate Olona, di 600 anime, ebbe a
registrare almeno 157 decessi “di pesta” dal settembre 1630 al novembre
del 1631; in Valle Olona – si legge negli atti di infeudazione del 1650 – il
contagio fece a Gorla Maggiore “mortalità grande riducendo li focolari che
erano circa 100 al numero di 30 o 40”, investì Gorla Minore e Prospiano,
estinse nel 1631 a Solbiate 80 dei 200 abitanti.”[11]
In valle Olona la peste aveva già
colpito la popolazione nel 1348, nel 1440 e nel 1576.
La peste è una funesta conoscenza
di tutto il mondo antico, tanto che in ogni secolo sono segnalate annate
particolarmente dannose in ogni angolo d’Europa, in quanto il male , per il
corso epidemico causato dal contagio, si diffondeva rapidamente senza trovare
ostacoli.
Gli studiosi ritengono che tifo e
peste possono facilmente diffondersi soltanto in un contesto di depressione
economica e di condizioni igienico sanitarie pessime. Se queste ultime furono
regolarmente allucinanti nelle società preindustriali, i più erano denutriti anche quando il pane si
acquistava a prezzi accettabili, la guerra dei Trent’anni, dove giunse, alterò
le condizioni socio-economiche, moltiplicando i poveri e i diseredati, i quali
cercarono scampo nelle città, sapendole più ricche di scorte alimentari
rispetto alle campagne.
In questo contesto precario, dove
la sottoalimentazione e la fame determinarono indubbiamente minori difese
fisiologiche, comparve e si diffuse la peste, la quale, già presente in
Francia, Germania e Svizzera, fu portata in Lombardia, come è noto, dai soldati
imperiali mandati all’assedio di Mantova. L’istinto al saccheggio li spinse,
mentre passavano per Grigioni e Valtellina, a sfondare case serrate perché
contagiate o sospette, diventando essi stessi portatori del morbo e vittime
dello stesso.
Le cronaca bustese che
accenna a quei tempi riferisce che “non
vi era figura di Santo né sottana di prete o di monaca che potesse tenere a bada
quelle bestie scatenate”.[12] La gravità della situazione è
segnalata anche dalla situazione di siccità che si ripeteva da parecchi ani,
aggravata dalla mancata lavorazione delle terre a causa dei continui balzelli
di imposte e tasse che il governo ducale imponeva: il contadino, oltre a dover
far fronte alle imposizioni, veniva defraudato del raccolto.
Secondo le stesse cronache “La
carestia arrivò a tal colmo che non si trovava di vivere né ancor con dinari,
perché un moggio di formento si vendeva lire settantadue, la segale sessanta,
il miglio cinquanta, il vino lire ventiquattro la brenta, et con difficoltà si
trovava la vettovaglia con denari contanti.”[13]
Il nostro anonimo cronista
continua poi con un fatto che merita di essere riferito:
“cosa di grande meraviglia et di
non poco stupore seguì l’anno 1630, quasi incredibile per chi non ha veduto coi
suoi occhi, che in quell’anno regnasse una gran quantità di ratti, dai quali le
persone ben difficilmente potevano difendersi, né di giorno né di notte, dalla
gran molestia ed importuna rabbia di questi animali, che non si poteva salvare
cosa alcuna per il gran numero di quelli mussi, né vi era casa che non
vivessero a centenare et facevano danno dappertutto”, insomma mangiavano ogni
cosa “tanto che
rosignavano anche gli usci come se fossero tanti cani.”[14]
Non vi è da stupirsi se il morbo
attecchì facilmente in una realtà come quella della valle Olona.
Se gli abitanti di Solbiate Olona, Prospiano e
Gorla Maggiore non cercarono di liberarsi dal tentativo d’infeudazione, non
cosi accadde con la comunità di Gorla Minore. Esposte le carte d’infeudazione
nelle comunità interessate, il 16 Marzo un agente della Comunità di Gorla
Minore, tal Francesco Vimercati, presentò a nome della comunità una procura,
chiedendo la liberazione della comunità stessa dall’infeudazione:
“Hanno
presentato li agenti della comunità di Gorla Minore pieve Olgiate Olona si come
d’ordine della S.V.I. sono state esposte cedole per infeudare e vendere detta
terra e perché per molti rispetti non deve permettere la comunità supplicante
che questa sia infeudata. (…)
Volendosi
la comunità supplicante redimersi da tale infeudazione, si accetti la sua
oblazione che li agenti di quella intendono fare e sempre si supplica
sospendere tale vendita ed infeudazione.”[15]
Il fatto che molte comunità rurali
decisero di affrontare il grave sacrificio economico del riscatto, è stato
interpretato come la prova della gravezza del regime feudatario.
Quando una comunità rurale era
scelta per essere infeudata, s’incaricava un funzionario di recarsi al
villaggio per interrogare i residenti, al fine di determinare l’importanza del
villaggio, il genere di coltivazioni ivi praticate, le fonti di reddito
tassabile, ecc…, non ultimo il parere dei locali riguardo ad una possibile
infeudazione.
Alla chiara contrarietà poteva
anche accostarsi l’indifferenza o addirittura la soddisfazione dell’arrivo di
un nuovo signore, visto come salvaguardia contro il peggior flagello cui erano
esposti i contadini in quel periodo di guerre, vale a dire l’alloggiamento
delle truppe. Essenziale per il passaggio delle truppe dalla penisola iberica
alle Fiandre, al centro delle “rivendicazioni francesi e delle “aspirazioni”
piemontesi, necessario per ogni politica di controllo dei principati italiani,
lo Stato di Milano fu caratterizzato dalla presenza permanente di consistenti
contingenti di truppe, stanziali o in transito, nelle quali, per di più, la
componente lombarda fu sempre minoritaria rispetto a quella di altri luoghi
(spagnoli, napoletani, svizzeri, tedeschi, ecc.)
Questa presenza ebbe non soltanto
risvolti politici, economici e finanziari, ma anche non trascurabili effetti
sulla vita quotidiana delle popolazioni lombarde che per centocinquant’anni
furono costrette a vivere accanto a soldati di diversa provenienza, sopportarne
i costi di mantenimento e subirne le angherie.
La soldatesca era alloggiata nelle
terre, città e province dello Stato (con la sola eccezione di Milano). Una
parte di essa era alloggiata nei presidi e la parte restante in alcuni luoghi
di qua e di là del Po (Domodossola, Bobbio, ecc.) e in località confinanti con
il tortonese (Castelnuovo Scrivia e Cassano) e con l’alessandrino (Rocca
Grimalda, Tagliuolo e Montale).
Il numero dei soldati presenti in
Lombardia non fu mai fisso, ma variò in relazione ai rumori e tumulti di
guerra. Con esclusione delle case ubicate a Milano, chiunque avesse compiuto
diciotto anni era tenuto ad alloggiare i soldati, a meno che non ne fosse
esonerato a titolo di privilegio antico o dal fatto di avere dodici figli. In
mancanza di “case herme” (caserme), vale a dire edifici civili isolati,
la soldatesca che non avesse trovato ospitalità nei castelli o nelle
piazzeforti poteva essere acquartierata nelle stesse case abitate dai civili, i
quali, pertanto, si vedevano costretti a vivere quotidianamente gomito a gomito
con persone che avevano abitudini e tradizioni diverse e che spesso non
parlavano neppure la loro lingua.
Conflitti, di conseguenza,
sorgevano ad ogni piè sospinto, e non servivano ad eliminarli i bandi emanati
dalle più alte autorità dello stato per regolare minuziosamente la materia.[16]
L’apparente contraddizione tra
chi, pur di evitare l’infeudazione, è disposto a gravi sacrifici economici, e
chi sembra essere indifferente o addirittura contento della venuta di un
signore feudale si risolve nella considerazione che le resistenze
all’infeudamento vengono spesso non dai contadini (che per lo più sono
indifferenti o favorevoli), quanto dai padroni terrieri e dalle autorità
locali, che vedevano il nuovo padrone capace di intaccare i loro interessi
personali o di casta. L’infeudamento significava per loro la presenza di un
magistrato (il giudice feudale) che poteva intromettersi nelle vertenze con i
conduttori dei propri fondi o con i lavoranti di giornata, anche quando gli
stessi proprietari avrebbero preferito risolvere quelle vertenze con metodi più
sbrigativi e meno ortodossi; se una vertenza doveva essere proprio portata in
tribunale, probabilmente tornava a vantaggio del ricco che fosse dibattuta
lontano dal villaggio, in una città dove egli poteva contare su amicizie che il
povero non poteva vantare.
L’infeudamento era inoltre per i
possidenti un grave smacco dal punto di vista dell’immagine, in quanto, da
padroni indiscussi, si vedevano costretti a riconoscere un superiore al quale
avrebbero dovuto poi tributare onori ed ossequi.
Al contrario i villici vedevano la
redenzione del loro villaggio negativamente, sia perché questo comportava il
pagamento di un oneroso riscatto, sia perché la presenza del giudice feudale
avrebbe permesso loro di sbrigare più agevolmente le loro pratiche senza
doversi recare ogni volta in città; a questo si aggiungeva la speranza che la
venuta di un nuovo signore potesse migliorare le condizioni di vita e la certezza
del mancato alloggiamento delle truppe di passaggio, capaci di mettere
puntualmente a soqquadro un’intera comunità. Non a caso uno dei luoghi comuni
più diffusi del tempo era quello secondo cui i civili avevano più da temere
dalle truppe chiamate a difendere lo stato del quale erano cittadini che da
quelle nemiche.[17]
In conclusione, possiamo dire che
l’infeudazione, oltre a non provocare particolari cambiamenti nella vita
quotidiana della comunità, comportava a volte qualche vantaggio, al contrario
della redenzione che obbligava la comunità all’aggravamento degli obblighi
finanziari: inevitabile che sul problema le comunità tendevano a dividersi al
proprio interno tra chi auspicava l’arrivo di un nuovo padrone o quantomeno non
aveva motivo per contrastare tale venuta (i contadini) e chi invece era avverso
a tale ipotesi (i proprietari terrieri).
La situazione generale qui
descritta, rispecchia perfettamente il caso gorlese: il giorno seguente (il 17
Marzo) Mons. Terzaghi, saputo del tentativo di liberazione, senza troppo
curarsi di chi fossero i richiedenti, presentò a sua volta una carta di procura
ricordando alla Regia Camera di aver già versato parte del denaro necessario
all’infeudazione e che la stessa doveva comprendere, cosi come stipulato, unitamente
tutte le quattro comunità; allo stesso modo Mons. Terzaghi chiedeva che il
termine di otto giorni normalmente concesso alle comunità per versare la cifra
necessaria alla liberazione fosse rispettato.[18]
Nella carta di procura presentata
dal Vimercati compare, tra i 36 richiedenti, anche un parente del nostro
monsignore, tal Antonio Terzaghi di Bernardo o Bernardino che, sorretto da vari
massari e dal Consorzio della Misericordia di Milano in Gorla Minore
(istituzione che aveva notevoli interessi economici nella comunità) tentò di
opporsi alla vendita della comunità.
Il consorzio della Misericordia
compare nella vita cittadina milanese nel 1368 per iniziativa di venticinque
ricchi mercanti. In breve tempo attirò la maggior parte della beneficenza
cittadina e in particolare quella dei ceti elevati. Il consorzio entra nel vivo
della comunità di Gorla Minore per effetto della disposizione testamentaria di
Giovanni Pietro Terzaghi fu Berto: contestualmente fu istituita la cappellania
di S. Giovanni Battista.
Per avere un’idea delle sostanze
confluite dal Terzaghi al consorzio basterà tener presente che la parte del
terreno arativo di proprietà del consorzio era pari al 12% di tutto il
territorio similare di Gorla Minore.[19]
Da una carta dell’ingegner Pietro
Antonio Barca del 1608[20] sappiamo con certezza che il
consorzio era proprietario anche di un mulino di quattro rodigini (presumibilmente ruote o macine) lungo il
fiume Olona.
Il 26 dello stesso mese Mons.
Terzaghi, meglio informatosi della situazione, presentò una nuova carta alla
Regia Camera in cui chiedeva che la richiesta di liberazione fosse annullata:
“Mons.
Terzago, al quale è stato deliberato il feudo di Gorla Maggiore, Gorla Minore,
Solbiate e Prospiano con la condizione che la comunità di Gorla Minore in
termine di otto giorni si possa redimere, (dice che) è stata prodotta una
cedola di procura a nome della comunità, non è fatta dalla comunità, ma da
privati.
Supplica
la S.V.I. che se nel termine di otto giorni si portasse il denaro non si
permetta la redenzione a nome della comunità (…) la procura non è giustificata,
ma fatta da un complesso di padroni..”[21]
Come già precedentemente detto,
risultano qui le difficoltà da parte del Terzaghi di acquisire il feudo anche a
causa del contrasto di alcuni appartenenti alla sua stessa casata, preoccupati
di perdere potere ed influenza nelle loro terre.
Nello stesso giorno Stefano
Vimercati, come Procuratore della Comunità di Gorla Minore pieve Olgiate Olona,
facendo riferimento agli otto giorni concessi per il pagamento della somma
necessaria alla liberazione
“ supplica che detto termine resti prorogato
almeno per altri quindici giorni nei quali il supplicante può far fare
incombenze.”[22]
Non sappiamo se il Terzaghi
esercitò delle pressioni sui richiedenti o se mosse qualche autorevole
conoscenza, ma quel che è certo è che due giorni dopo il Sig. Giacomo D’Adda,
con altri rappresentanti del Consorzio della Misericordia ritirarono in tutta
fretta la domanda di liberazione:
“Memoriale
di Giacomo D’Adda e altri fittavoli, massari e pigionanti del Consorzio della
Misericordia di Milano in Gorla Minore pieve Olgiate Olona Ducato di Milano.
Il
Sig. Giacomo D’Adda e altri fittavoli e pigionanti del Consorzio della
Misericordia di Milano avevano fatto procura di Stefano Vimercati per redimere
la comunità di Gorla Minore pieve Olgiate Olona dall’infeudazione (…) si sono
pentiti della procura…”[23]
Inoltre, in un documento del 30
Aprile, leggiamo che
“Ecco
che comparvero li fittabili e Massari del Venerando Consorzio della
Misericordia della detta terra di Gorla Minore e ci presentarono un instrumento
col quale revocarono la procura fatta da detto Vimercati, con il che
decidessimo di riportare l’instrumento negli atti e che se ne desse notizia
allo stesso Vimercati.”[24]
Una situazione del tutto simile si
era sviluppata poco tempo prima per il feudo di Parabiago, quando , nel 1648,
un Conte Arese si offrì come acquirente: la sua offerta si scontrò dapprima con
l’opposizione apparentemente unanime della comunità. Tale opposizione venne più
tardi denunciata dai contadini come una manovra fraudolenta, perpetrata a loro
insaputa dai proprietari terrieri del posto, tanto che un’inchiesta confermò
che la decisione di chiedere la redenzione e di raccogliere la somma necessaria
a pagare il riscatto era stata “fatta per forza ad istanza da pochi
particolari” che avevano montato “servi armati nelle campagne per far
conoscere ai paesani la volontà dei signori”. Alla luce di questi risultati
la richiesta di redenzione fu respinta e la terra fu infeudata dal Conte Arese,
con piena soddisfazione dei contadini che avevano minacciato di “fuggire ed
absentarsi totalmente”, qualora i proprietari l’avessero spuntata.[25]
Superate quindi le riserve dei
ricorrenti, la Regia Camera decise in data 31 Marzo che si procedesse alla
deliberazione dello strumento di vendita del feudo a favore di Mons. Carlo
Giovanni Giacomo Terzaghi, il quale versò 11217,5 lire per i 217 fuochi che
formavano le quattro comunità.
Le altre comunità non posero alcun
veto all’infeudazione; in particolare, Gorla Maggiore probabilmente si trovò,
al di là della volontà o meno di opporsi al nuovo padrone, impossibilitata ad
ogni reazione, in quanto sfiancata economicamente. Precedentemente infatti
questa terra era stata feudo dei Visconti; il 17 Agosto 1536, con atto rogato
da Galeazzo Visconti, il Conte Vitaliano si accordò con alcuni rappresentanti
della comunità gorlese assicurandosi il censo annuo di 80 lire da parte della
comunità, la quale avrebbe versato tale cifra il giorno di S. Martino.
Dal 1536 successero così al Conte
Vitaliano (figlio di Lodovico) il conte Annibale, ed a questi un altro Lodovico
il quale, morto senza eredi maschi, lasciò le sue sostanze a sua figlia, donna
Laoisia (1599). La comunità di Gorla Maggiore, vedendo finire la legittima
successione nella linea mascolina decise di non versare più il censo ai
Visconti, considerando il feudo devoluto alla Regia Camera: ne nacque così una
lunga vertenza che coinvolse la comunità per oltre un cinquantennio, con risvolti
gravissimi, specie in quegli anni noti per guerre e pestilenze.
In date diverse gli eredi di
Laoisia, Pietro Francesco e poi Lodovico, intentarono varie cause contro la
comunità gorlese; il 15 Gennaio 1602, con atto rogato dal notaio Cesare
Pusterla, la comunità gorlese cedette alle pretese dei Visconti,impegnandosi a
versare 780 lire imperiali. L’anno seguente i popolani, stanchi delle arroganze
degli ex feudatari, diedero mandato al console Giò Batta Fontana, tramite il
cancelliere notaio Ottaviano Pusterla, e presentarono ricorso alla Regia
Camera; nonostante la sentenza desse ragione ai richiedenti (19 Luglio 1606),
le richieste degli eredi continuarono imperterrite fino al 1654, quando cioè la
comunità era già stata riinfeudata da quattro anni al Terzaghi.[26]
A seguito dell’infeudamento,
rogato in data 23 Giugno 1650 dal notaio Camerale Mercantolo, furono raccolte
le informazioni sulle singole località. Il questore console di Vimercate
ricevette le informazioni redatte dai consoli locali e siglate dal console Giò
Batta Cartabia in data 8 novembre 1650[27].
Rispetto a Gorla Maggiore i fuochi
contati dal cancelliere Dott. Giacomo Filippo Moneta erano 80, compresi il
curato e il cappellano di San Carlo, cui si dovevano aggiungere alcuni elementi
che, essendo proprietari di fondi, non abitavano nella comunità. Riguardo ai
dazi, quelli del pane e del vino erano di competenza dei Conti Giovanni e
Lodovico Visconti di Fagnano Olona, mentre per il dazio della carne vi erano
fondati dubbi sui diritti di questi, in quanto da tempo non risultava aperta in
città una beccheria, e al presente la gente si riforniva in una bottega di
Fagnano. La terra di Gorla Maggiore non era soggetta ad imposte feudali,
eccetto il censo ordinario del sale che pesava sulla comunità per 27 lire.
Secondo il Dottor Giacomo Filippo la comunità di Gorla era precedentemente
formata da oltre 100 fuochi, ma che la peste del 1630 l’aveva ridotta a circa
40 e che solo grazie all’immigrazione poteva contare oggi sugli 80 calcolati.
Gorla Minore era formata da 63
focolari anche se la lista presentata ne dimostrava 64: una persona era infatti
morta. Nella lista presentata dal console di Gorla Minore Antonio Ferioli del
fu Ilario sono compresi anche quelli del curato, degli Oblati e delle vedove.
Tra le attività presenti sul
territorio sappiamo dell’esistenza di un mulino doppio di proprietà del
fratello di Carlo Giovanni Giacomo,
Francesco Maria Terzaghi, che era condotto da Francesco Musaggio e
Gerolamo Baio in qualità di pigionanti, abitanti in una casa vicino al mulino.
Riguardo la peste, Antonio Ferioli dice che “ho inteso che ultimamente vi fu
un contagio e che morirono in molti, ma non so se i fuochi siano distrutti. E’
probabile che molti fuochi andarono a finire.”
A Prospiano i fuochi elencati dal
console Gaudenzio Paolano di Paolo erano in tutto 17. Non vi erano entrate
feudali all’infuori del censo del sale che pesava per circa 70 lire l’anno. Sul
posto vi era un’osteria che lavora poco, anche perché “chiunque può fare
l’oste, basta che paghi il bollino a Don Francesco Maria Terzaghi”. Non
esisteva il prestino, ed il pane si comperava a Castellanza. Riguardo alla
peste, il console si limita a dire che anche a Prospiano vi era stato il
contagio e che per questo il numero dei fuochi era diminuito.
Solbiate Olona era formata da 40
fuochi compreso quello del parroco; il paese non aveva entrate feudali eccetto
il censo del sale che, con altre imposte gravavano sulla comunità per circa
2000 lire l’anno versate ad un imprecisato Marchese Fiorenzo e, in parte
uguale, a tale Angela di Gallarate che fu moglie di Carlo Finoni ed era ora
moglie di un soldato chiamato Gian Maria Pinorchino. Circa 48 pertiche di terra erano di proprietà
del Marchese Giovanni Visconti, il quale chiedeva un affitto per esse.
Vi era poi un’osteria diretta da
Carlo Bignazio il quale, “pur non conoscendo
padrone, versava il bollino e ammazzava alcune bestie per conto
dell’impresario.” Non vi era alcun prestino, ma l’oste precedente andava a
prendere il pane a Legnano.
In seguito all’ispezione camerale
si scoprì che le comunità si erano ridotte a 200 focolari, e pertanto la Regia
Camera dovette restituire al Terzaghi la somma di 217,5 lire versata
precedentemente in eccesso (vedi appendice 3).
L’elenco dei fuochi mostra, per
Gorla Maggiore, una importante presenza della famiglia Moneta (tra essi vi è
anche Ser Andrea, persona al servizio di Sua Maestà il Re), mentre nessun
Terzaghi sembra risiedere in questa comunità.
L’unica presenza dei Terzaghi è attestata a Gorla Minore, dove risiedono
il Sig. Giovanni Battista del fu Francesco e il Sig. Carlo Terzaghi del fu
Carlo: di questi personaggi non abbiamo nessuna notizia, ma possiamo ritenere
che fossero elementi di rilievo della comunità (erano infatti detti Signori)
anche se non di primissima importanza.
Le comunità infeudate risultano
essere quindi solo il centro delle attività economiche della famiglia, che
continua a risiedere stabilmente a Milano.
[1] A.S.MI. Fondo Feudi Camerali p.a., cart. 16 fasc.
1, “Avvenimenti circa l’autorità dei feudatari dello Stato di Milano” (a
stampa), in D. SELLA: Lo Stato di Milano in età spagnola, UTET Torino
1987, p. 34.
[2]Per una completa disamina del problema si rimanda a
M. BARBAGLI: “Sotto lo stesso tetto” op. cit.
[3] L. FACCINI: La Lombardia tra ‘600 e ‘700,
Milano, Franco Angeli Editore 1988 p. 144.
[4] Per un approfondimento della questione si rimanda
al testo di D. SELLA: Lo Stato di
Milano in Età Spagnola, op. cit.
[5] A.S.MI. Fondo Feudi Camerali p.a., cart. 271 fasc.
B “Feudo di Gorla Maggiore 1650, 13 Giugno”, doc. 12/2/1650.
[6] A.S.MI. Fondo Feudi Camerali p.a., cart. 271 fasc.
B già cit., doc. del 27/1/1650.
[7] A.S.MI. Fondo Feudi Camerali p.a., cart. 271 fasc.
B già cit., riassunto.
[8]A.S.MI. Fondo Feudi camerali p.a. Cart.
271, fasc. B già cit. doc 28/1/1650
[9] A.S.MI. Fondo Feudi Camerali p.a., cart. 271 fasc.
B già cit., doc. del 30/4/1650.
[10]
A.S.MI. Fondo
Feudi camerali p.a. Cart. 271, fasc. B Feudo di Gorla Maggiore 1650\13\6
doc.30/4/1650
[11] Le cronache di cui parliamo sono quelle riportate
in Storia della peste avvenuta nel borgo di Busto Arsizio, 1630
riportata integralmente in F. BERTOLLO –
U. COLOMBO: La peste del 1630 a Busto Arsizio, Bramante Editrice, Busto Arsizio 1990, p. 59.
[12] Ibidem.
[13] Ivi p. 103.
[14] Ivi p. 149.
[15] A.S.MI. Fondo Feudi Camerali p.a., cart. 271 fasc.
B già cit., doc. del 16/3/1650.
[16] Gli eserciti del tempo non erano sicuramente
composti da gentiluomini, ed assai frequente era in essi la presenza di
avventurieri, sbandati e delinquenti. Ma l’isolamento dei soldati a volte era
aggravato anche da divieti che rendevano assai difficili i contatti con le
popolazioni civili. Ad esempio, il 15 Gennaio 1691, il Cardinale Visconti, arcivescovo
di Milano pubblicò un editto nel quale, per evitare il diffondersi dell’eresia,
impartiva disposizioni severe a tutti i parroci (Acta Ecclesiae
Mediolanensis, a cura di A. Ratti, Milano 1890-97, vol. IV, col. 1355 e
sgg.).
[17] R. CANOSA: La vita quotidiana a Milano in età
spagnola, Ed. Longaresi, Milano 1966, p. 133.
[18] A.S.MI. Fondo Feudi Camerali p.a., cart. 271 fasc.
B già cit., doc. del 16/3/1650.
[19] AA.VV.: La nostra chiesa parrocchiale di S.
Lorenzo – Gorla Minore , Tip. A. Prina, Gorla Minore 1933, p. 44.
[20] Una copia del documento è riportata in L.
CARNELLI: La valle Olona vista dalla dei Santi Vitale e Valeria in Gorla Maggiore,
op. cit., p. 101.
[21] A.S.MI. Fondo Feudi Camerali p.a., cart. 271 fasc.
B già cit., doc. 26/3/1650.
[22] A.S.MI. Fondo Feudi Camerali p.a., cart. 271 fasc.
B già cit., doc. 26/3/1650.
[23] A.S.MI. Fondo Feudi Camerali p.a., cart. 271 fasc.
B già cit., doc. 28/3/1650.
[24] A.S.MI. Fondo Feudi Camerali p.a., cart. 271 fasc.
B già cit., doc. 30/4/1650.
[25] A. GIULINI: Vicende feudali nel borgo di
Parabiago, Giornale Araldico, Bari 1902, pp. 3-7.
[26] L. CARNELLI, G. CISOTTO, A. DEIANA: Gorla
Maggiore… op. cit., pp. 128-132.
[27] A.S.MI. Fondo Feudi Camerali p.a. cart. 271
fascicolo C “feudo di Gorla Maggiore”. L’elenco dei fuochi è riportato
integralmente in appendice.
Ringraziamo il dott. Sergio Marinotti per l’autorizzazione alla pubblicazione del presente saggio tratto dal suo lavoro di tesi dal titolo “Tra fede ed affari: Mons. Carlo Terzaghi e l’acquisizione del feudo di Gorla Maggiore alla metà del XVII secolo”.
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